A colpi di tweet, follower e hashtag, la nostra televisione è ormai Twitter-dipendente. Accanto alle rilevazioni Auditel, non mancano le analisi delle discussioni online, in una gara per comparire nei trending topic, certi così di catturare l’attenzione di quel pubblico che i meter sembrano non riuscire più a intercettare. «Da un lato, la social tv viene interpretata come una modalità di partecipazione del pubblico più libera rispetto alla passività (tutta da dimostrare) della “semplice” visione televisiva», ha scritto recentemente Aldo Grasso sul Corriere della sera. «Dall’altro lato, però, non bisogna sottovalutare la presenza sempre più diffusa di strategie attivamente perseguite dai broadcaster per trarre vantaggio, in termini promozionali o direttamente economici, dal trend della social tv».
Con il boom dei social network si è pensato a un nuovo modo di fare televisione, più interattiva e coinvolgente in cui il pubblico, oltre al potere del telecomando, potesse sperimentare anche un certo “potere autoriale”, partecipando attivamente alla trasmissione e gettando nel dimenticatoio mezzi “obsoleti” come la telefonata da casa o il televoto, per imporre un cambio di registro al programma. La situazione richiama un po’ gli albori del Dtt, quando si ipotizzava che la sua introduzione si sarebbe ben presto declinata in una interattività spinta, cosa che - come ben sappiamo - non è avvenuta, sia per ragioni tecnologiche che economiche. In realtà, quello che emerge da quel gran cinguettare del pubblico della rete, dal buzz, è poco più che un chiacchiericcio di fondo, un lungo elenco di commenti, per la maggior parte caustici, che ben poco aiutano ad approfondire la conoscenza di uno show in maniera davvero innovativa. La funzione del pubblico in rete è quella di un coro amplificato, che aiuta il broadcaster a ottenere i numeri necessari alla raccolta adv (dimostrando di intercettare “teste” attive), ma che non serve a costruire - come si vorrebbe a tratti far credere - un nuovo tipo di programma.
«È una frontiera inedita su cui tutti dovrebbero riflettere perché è un mercato nuovo lasciato, tranne in qualche caso pregevole, in balia del niente, una sorta di terra di confine», esordisce Andrea Barchiesi, Ceo di Reputation Manager. Secondo il quale invece applicare Twitter alla tv «è come avere sotto controllo le pulsazioni del paziente. Si può capire in diretta cosa funziona e cosa no, intervenendo subito per modificare quanto necessario». Nonostante la consolidata presenza dei social nella dieta mediatica, soprattutto in quella dei più giovani, le strategie editoriali si limitano a lanciare input, ma raccolgono e riutilizzano ben poco. Attratti soltanto dai numeri, si rischia di cadere nello stesso equivoco di Auditel, attribuendo il successo di questa o quella trasmissione al mero dato numerico senza studiare effettivamente a cosa corrisponda o trarne informazioni utili per migliorarla a sua volta. Secondo Barchiesi, infatti, nonostante il fronte (pubblicitario) appaia più vitale , «è un terreno su cui non stanno ancora “operando”, per obsolescenza di modello concettuale, ancora troppo vissuto sulla parte televisiva». I contenuti si spostano sui vari device, è vero, ma a oggi siamo ancora lontani da un vero “nuovo” modello di costruzione social-televisiva: siamo ancora nel campo delle ipotesi. «La sensazione è che ci sia qualcosa di estremamente importante, ma che ancora non si abbianole competenze perché per loro (per chi fa i programmi, ndr.) è un mondo nuovo da decodificare. È un po’ come quando nel 2000 si pensava che internet avrebbe soppiantato tutti. Certo, 14 anni dopo probabilmente avevamo ragione, ma allora i tempi non erano ancora maturi. Adesso non passeranno 10 anni. C’è tanto da fare e ancora si sta facendo molto poco», conclude Barchiesi. E intanto ci si perde in un mare di tweet.